Il paese dei furbi è in affanno (come dicevo anche nel post Viale del Tramonto): fin quando si competeva tra di noi in una sorta di campionato locale l’attitudine nazionale ad approcciarsi alle regole con scaltra flessibilità ha pagato proficui dividendi, ma adesso che la globalizzazione ha imposto una competizione su scala planetaria, ad aziende e sistemi-paese, le cose sono cambiate e l’Italia, da sempre paese che accetta il cambiamento con riluttanza, non riesce ad apportare quei cambiamenti radicali che le possano consentire di mettersi al pari degli altri.
Purtroppo, quando si tenta di affrontare le questioni nodali spesso si viene tacciati, nell’avvilente dibattito politico nazionale, di moralismo o, più sbrigativamente, di comunismo. Il che è ovviamente è risibile, ma la tecnica produce ancora risultati su una larga fetta dell’opinione pubblica (poco informata e poco scolarizzata, se proprio vogliamo dirla tutta).
Che la situazione sia piuttosto grave lo conferma il discorso pronunciato ieri da Guido Tabellini, Rettore dell’Università Bocconi, all’inaugurazione dell’anno accademico (la sintesi ufficiale la trovate qui). Il problema del nostro paese, a cui da oltre 15 anni la classe dirigente non riesce a dare soluzione, è la bassa crescita economica, precipitata dagli anni ’60 ad oggi costantemente: negli anni del boom il Pil pro capite (cioè la ricchezza media della popolazione) è cresciuto del 55%, ma anche nelle decadi successive il paese cresceva più dei partner europei, fino al rallentamento degli anni ’90 (crescita del 12%) e al crollo degli ultimi 10 anni in cui si è registrata addrittura una decrescita.
Il Rettore prova anche ad avanzare delle spiegazioni a questo fenomeno e lo fa con un punto di vista assolutamente interessante e spiazzante: è la mancanza di legalità “che ostacola il buon funzionamento delle istituzioni”, e ancora, con maggior precisione, “la tutela dei diritti di proprietà, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la protezione dall’abuso da parte dei governi spiegano la differenza tra i paesi ricchi e quelli poveri più di qualunque altra variabile economica, sociale o geografica…i paesi dove le istituzioni tipiche di uno stato di diritto e in particolare la giustizia funzionano meglio tendono a specializzarsi in settori produttivi più sofisticati”.
L’analisi del Rettore è impietosa, soprattutto per chi si alimenti principalmente dei dibattiti politici in TV che stanno ben attenti a non parlare di queste questioni, preferendo le frivolezze del chiacchiericcio di palazzo. La nostra economia appare essere tecnologicamente arretrata e questo ci mette a confronto con i paesi di recente industrializzazione (vedi Cina) con i quali la competizione può essere solo sul prezzo e quindi inevitabilmente perdente per noi a causa dei costi più bassi con cui i nuovi paesi possono abbattere la concorrenza dei manifatturieri tradizionali. Non solo, la nostra economia appare anche organizzativamente arretrata, con il culto feudale per la piccola e media impresa, perchè “stenta ad attuare il decentramento organizzativo che meglio si addice alle nuove tecnologie” (ma questo provate a spiegarlo alle camicie verdi, anche con un grafico produrrebbero solo dei grugniti gutturali di sbigottimento).
Silvan, un futuro da direttore di TG |
La conclusione del discorso è tutta dedicata a due malattie tipicamente italiche: l’evasione e il clientelismo. La prima “è un cuscinetto che permette di mantenere situazioni di inefficienza ed eccessiva frammentazione della struttura produttiva, riducendo la competitività sui mercati aperti” (appunto, come dicevo all’inizio: finchè si giocava tra di noi potevamo permettercelo, adesso non più), mentre il clientelismo produce “la prevalenza della fedeltà rispetto al merito e fa fuggire le persone di talento”, impoverendo in tal modo il nostro sistema economico complessivo.
Della precisa analisi di Tabellini nessun TG ha parlato.
In compenso tutti hanno fatto analisi linguistiche sul termine “vajassa” con cui la Carfagna ha apostrofato la Mussolini.
L'informazione sa nascondere le cose meglio della prestidigitazione.
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