La RAI è un servizio pubblico tutt’altro che perfetto, ma non certo per colpa sua: da decenni è usata malamente dalla classe politica di destra e di sinistra come ufficio di collocamento per la creazione di clientele e come servile strumento di propaganda. Nonostante questo è anche campo di battaglia dei politici che l’accusano di essere di parte: la destra criminalizza lo spazio di Santoro con la stessa veemenza con cui la sinistra attacca il TG1 di Minzolini. Essere uno scenario di guerra rende la televisione pubblica un campo di battaglia apocalittico spesso al centro di polemiche infuocate. Ma la RAI, nonostante tutto, rimane un assett culturale di questo paese con una grande e nobile tradizione.
Nord e Sud ne La Grande Guerra |
Il primo elemento unificatore degli italiani fu la tragedia della Prima Guerra Mondiale quando una generazione che nulla aveva in comune, nemmeno la lingua, si ritrovò a combattere un conflitto incomprensibile nel sangue e nel fango delle trincee del Nord Est, conoscendosi e solidarizzando nella difficoltà.
Il secondo elemento di unione degli italiani fu, e mi rendo conto che la tesi possa risultare a molti indigesta, il fascismo che fu anche movimento di popolo che galvanizzò per buona parte degli anni ’30 la borghesia e il proletariato, al Nord come al Sud.
Poi fu la volta del boom economico e della connessa emigrazione di massa che fece vivere per la prima volta a stretto contatto milanesi con pugliesi, torinesi con siciliani e, ma questo nessuno lo dice mai, romani con veneti: già negli anni 50 la capitale fu letteralmente invasa da domestiche che fuggivano dalla miseria delle campagne padane, curiosamente, nonostante queste donne fossero migliaia, non hanno lasciato traccia nei cognomi romani perché pur sposandosi e vivendo tutta la loro vita a Roma nessuno dei loro figli e nipoti porta con se tracce di quei cognomi squillanti che finivano con i suffissi –an, -on e –in.
Ma questi elementi hanno avuto connotazioni economiche, sociali e politiche, l’unità culturale l’ha fornita in via quasi esclusiva la RAI che, dal 1954, è entrata prima nei luoghi di ritrovo (i bar, i circoli) e poi nelle case fornendo agli spettatori un linguaggio comune che prima non esisteva a livello di massa. E ora la RAI rivendica con giusto orgoglio questo primato lanciando una gran bella campagna per il canone 2011 (che è la tassa più evasa del paese con 6 Milioni di famiglie che fanno finta di non avere la tv in casa) in linea con il 150° anniversario dell’Unità.
Gli spot, diretti dal regista Alessandro D'Alatri e che trovate alla fine del post, sottolineano, in maniera leggera e ironica con una serie di gag, come aver fornito agli italiani una lingua comune ci abbia permesso di comunicare, di riconoscerci come persone che hanno un legame e quindi di essere Nazione (e non mero popolo). E’ una gran bella campagna di comunicazione, la migliore operazione legata all’anniversario dell’Unità che al momento sia stata fatta (e dubito che ce ne saranno di migliori con l’aria che tira), con la quale la RAI alza la testa e rivendica il suo ruolo di servizio pubblico.
Ovviamente a qualcuno la cosa non è piaciuta e alcuni Leghisti, ritenendo la campagna offensiva nei confronti dei dialetti, hanno risposto con dei video-appelli nelle loro lingue gutturali per boicottare il pagamento del canone.
Ora, a parte il fatto che incitare all’evasione fiscale per chi siede in Parlamento è cosa assai discutibile, soprattutto nella contingente fase economica in cui le casse pubbliche sono drammaticamente sotto pressione, ma va detto che la campagna non ha nulla di offensivo nei confronti dei dialetti, anzi li presenta in forma divertente, ma, giustamente, evidenzia la funzione unificatrice della lingua italiana.
I dialetti sono un patrimonio della cultura italiana, fanno parte della nostra tradizione localistica e sottolineano il diverso passato delle genti che da 150 anni formano il popolo italiano, ma essi non possono essere conservati attraverso atti di legge. Non ha senso salvaguardare il dialetto insegnandolo a scuola, perché il dialetto è lingua di strada e non di accademia. Il dialetto non va difeso dall’alto perché esso nasce dal basso: il dialetto è patrimonio del Popolo e non del Palazzo. Gli usi linguistici locali vivranno finchè saranno forti abbastanza da continuare a vivere parallelamente all’italiano e non c’è aiuto di stato che possa mantenerli in vita se essi saranno abbandonati dalle persone che ne fanno uso.
L’uso della terapia intensiva per i dialetti denota debolezza, insicurezza, timore di non saper salvaguardare le proprie tradizioni davanti all’avvento del nuovo mondo globalizzato. I Leghisti amano i toni guasconi, le esibizioni muscolari, il linguaggio ruvido, ma tutto questo sottende, come sempre, una gran paura di non essere forti abbastanza per rimanere se stessi.
I dialetti sono un patrimonio della cultura italiana, fanno parte della nostra tradizione localistica e sottolineano il diverso passato delle genti che da 150 anni formano il popolo italiano, ma essi non possono essere conservati attraverso atti di legge. Non ha senso salvaguardare il dialetto insegnandolo a scuola, perché il dialetto è lingua di strada e non di accademia. Il dialetto non va difeso dall’alto perché esso nasce dal basso: il dialetto è patrimonio del Popolo e non del Palazzo. Gli usi linguistici locali vivranno finchè saranno forti abbastanza da continuare a vivere parallelamente all’italiano e non c’è aiuto di stato che possa mantenerli in vita se essi saranno abbandonati dalle persone che ne fanno uso.
L’uso della terapia intensiva per i dialetti denota debolezza, insicurezza, timore di non saper salvaguardare le proprie tradizioni davanti all’avvento del nuovo mondo globalizzato. I Leghisti amano i toni guasconi, le esibizioni muscolari, il linguaggio ruvido, ma tutto questo sottende, come sempre, una gran paura di non essere forti abbastanza per rimanere se stessi.
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